lunedì 22 settembre 2008

Caso Carretta: nuovo articolo sul corriere.it

Tratto dal corriere.it

Gravemente malato di cuore e con un forte enfisema polmonare

Kenia: italiano accusato di pedofilia
«È stato un tentativo di estorsione»

Medardo Caretta, 75 anni, architetto di Alba, condannato a 5 anni per adescamento di minori e molestie

DAL NOSTRO INVIATO
MALINDI – Magrissimo, tremante, il volto emaciato, il respiro ansimante e gli occhi persi nel vuoto. Il polso è incatenato al letto con una manetta che gli blocca i movimenti. Così un architetto di Alba, 75 anni, Medardo Caretta, gravemente malato di cuore e con un forte enfisema polmonare, giace in un letto dell’infermeria dalla prigione Shimo La Tewa di Mombasa. È stato condannato a 5 anni di reclusione per adescamento e molestie ai danni di due ragazzini. Assolto invece dall’imputazione più grave: sodomia dopo che il medico ha accertato che l’accusa era infondata. Lui si è sempre proclamato innocente. Da un paio di giorni dall’ospedale di Malindi è stato trasferito alle carceri di Mombasa, dove ha potuto vedere brevemente la figlia Daniela. Per ora è in infermeria, ma non si sa fino a quando potrà restarci. Lo attende una cella assieme ad altri detenuti comuni.

I FATTI NEL 2004 - I fatti per cui Caretta è stato condannato risalgono al 2004. Il 23 luglio due ragazzini, John e Brian, si presentano davanti alla sua casa di Malindi. Chiedono l’elemosina. E qui le versioni divergono. Lui dice di averli fatti aspettare fuori dal cancello e di avergli portato 200 scellini (un paio di euro). Loro sostengono di essere stati trascinati in casa e fatti oggetto di attenzioni a scopo sessuale. Un mese dopo al cancello della villa dell’architetto si presenta la polizia: lo portano al comando e gli notificano che è stata presentata una denuncia contro di lui per sodomia. Caretta scoppia in una risata: «Tutto era così inverosimile», racconta. «In quel momento nella stanza arriva una signora, la madre di John. Davanti ai poliziotti mi spiega che è disposta a ritirare la denuncia se le pago un risarcimento di 5 mila euro. Naturalmente rispondo che non ci penso neanche, non accetto ricatti. Andiamo in corte e la verità salterà fuori. Resto una notte nella stanzetta della polizia e due in carcere. Soffro molto ma sono deciso a resistere all’estorsione. Esco su cauzione».

GIRONE INFERNALE - La prigione di Malindi è un girone dantesco: un’ottantina di detenuti (assassini, stupratori, rapinatori) tutti nella stessa cella. Pochi giorni dopo scatta un’altra denuncia. La madre di Brian accusa l’architetto di adescamento e molestie. Stessa trafila e seconda cauzione. Comincia la causa di merito. È difficile leggere le 144 pagine di verbali: ci sono continue contraddizioni dei testimoni. Occorre andare avanti e indietro nelle pagine per rendersi conto, per esempio, che non sono certe neppure le date della presunta sodomizzazione o della visita in ospedale dei ragazzini. Sette testimoni, sette date diverse. Sorprende che l’avvocato della difesa, Ole Kina, un uomo che si è arricchito nelle cause tra italiani a Malindi, non faccia rilevare al giudice le incongruenze. I bambini, la cui capacità di intendere e di volere viene testata chiedendo loro se conoscono i 10 comandamenti, raccontano di colluttazioni con l’architetto che li trattiene, li insegue quando scappano, li spoglia, li obbliga a rapporti sessuali. «Peccato che a Medardo venga il fiatone appena muove pochi passi», racconta Giancarlo Cecchetti , un vicino di casa. Rincara la dose il dottor Arnold Wambejo, un medico chiamato dall’accusa a testimoniare se c’è stata sodomia: «Un uomo che da trent’anni ha un enfisema polmonare e problemi cardiaci come Caretta», conferma, «rischia la vita persino quando cammina».

TESTIMONIANZE - «Siamo stati portati in casa», spiega John durante l’interrogatorio. «Era vuota, non ho visto mobili, ad eccezione di un letto senza materasso». Eppure casa Caretta è un mezzo museo. «C’erano parcheggiate tre macchine, due a sinistra e una a destra. Nessuna piscina», aggiunge il ragazzino. Ma in quella villa c’entra a mala pena solo un’auto, proprio perché il giardino è occupato da una grande vasca. Al referto medico presentato in aula vengono aggiunte alcune righe con penna e calligrafia diversa apposta per fare in modo che le condizioni dei ragazzini dopo la presunta violenza appaiano più gravi. L’infermiera che ha firmato il certificato, chiamata alla sbarra dei testimoni, dopo aver esaminato il documento, dichiara: «Quelle note in più non sono mie. I ragazzini tutto sommato stavano bene».

PROCESSO - Il processo viene rimandato ben 40 volte. Già all’inizio i genitori di Brian si ritirano. Nel 2005 il procuratore Kisio, il primo incaricato a seguire il caso, rinuncia al mandato «senza una ragione» e, nel maggio 2006, stessa scelta la fa il procuratore C.I. Munene che l’ha sostituito: «Con questo caso mi sto giocando la reputazione. Arrivederci», dichiara in aula. Anche il faldone della polizia sul caso sparisce. Nell’aprile 2007 l’architetto torna in Italia per un’operazione di ernia. «Confidavo nella giustizia e così sono tornato in Kenya», racconta. Per almeno nove volte Caretta viene sollecitato dalla madre di John a pagare 5 mila euro per ritirare la denuncia. A una delle richieste assiste anche il console onorario italiano a Malindi, Roberto Macrì che racconta l’episodio al giudice e affigge nella bacheca del consolato una lettera di spiegazioni di quanto sta accadendo. Neanche la sua testimonianza serve a stabilire l’innocenza di Caretta. Kenga Ngonyo è un amico kenyota del professionista piemontese e ha assistito a quasi tutte le udienze: «Una volta fuori dal tribunale sono stato avvicinato dalla madre di John. Mi ha chiesto di convincere Medardo a pagare i 5 mila euro». Salta fuori un giardiniere licenziato da Caretta meno di un anno prima perché trovato ubriaco: Anthony Nyala. Frequenta la madre di John. I loro figli vanno nella stessa scuola e sono amici. Racconta un kenyota di Malindi che conosce Nyala da anni: «Era tornato più volte per farsi riassumere, ma Medardo non l’aveva più voluto. Alla fine aveva giurato che gliela avrebbe fatta pagare. Per carità non metta il mio nome altrimenti fanno fare la stessa fine di Caretta anche a me».

Massimo A. Alberizzi
malberizzi@corriere.it

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